Intervista al cantautore torinese Carlo Pestelli
L’universo della musica è spesso popolato da artisti straordinari che, con le loro melodie e parole, ci portano in viaggi emozionali unici. In questo articolo, ci immergeremo nel mondo di un autore e musicista torinese di eccezionale talento; un artista che ha catturato l’essenza della vita e delle esperienze umane attraverso la sua musica e le sue parole. Attraverso questa intervista, esploreremo l’anima creativa dell’artista e della persona: ecco a voi Carlo Pestelli.
Qual è stata la tua prima esperienza con la musica e quando hai capito che volevi diventare un musicista/cantautore?
Credo che due fattori stiano alla base della mia scelta: anzitutto essere cresciuto in una casa piena di dischi e in secondo luogo aver avuto ottimi insegnanti di musica alle scuole medie. Ho intuito che mi sarebbe piaciuto provare a fare il cantautore dopo aver ascoltato, avevo 14 anni appena compiuti, Francesco Guccini con la sua band, al palazzetto dello sport di Torino. La sorpresa non furono le sue canzoni, che in buona parte già conoscevo, ma la straordinaria capacità comunicativa dell’artista emiliano, così scherzoso con tanto pubblico. Da lì iniziai a scribacchiare canzoni, intrattenendo gli amici alle feste. A fine liceo ci presi ancora più gusto e iniziai anche a parodiare alcuni celebri cantautori. La mia prima esperienza è un insieme di concerti e concertini nei locali della città, ormai quasi trent’anni fa…
Chi sono le tue principali influenze musicali e come hanno contribuito a plasmare il tuo stile?
Variegate influenze: blues elettrico, country, flamenco, rock inglese e americano, canzone sociale, teatro canzone… Tra gli italiani, i nomi degli artisti che ho seguito molto da vicino rimanendone via via influenzato sono: Fabrizio De Andrè, Giorgio Gaber, Francesco Guccini, Fred Buscaglione, Luigi Tenco, Piero Ciampi, Claudio Lolli e Fausto Amodei, che cito per ultimo ma per me è forse il più importante. I miei eroi stranieri: Brassens, Dylan, Springsteen, Joni Mitchell, Randy Newman, Ben Harper e Darrell Scott. In ognuno di loro quello che mi ha sempre colpito è che il motore ispirativo principale delle canzoni è l’uomo, l’essere umano, nella sua debolezza e contradditorietà. Negli ultimi anni, ho avuto anche la fortuna di conoscere molto da vicino due grandi artisti italiani come Beppe Gambetta ed Elena Ledda. Sicuramente mi hanno influenzato, specialmente per la visione a tutto tondo che hanno della musica.
Parlando del tuo processo creativo, come nascono le tue canzoni? Hai un rituale o una fonte di ispirazione particolare?
Un rituale no. Mi annoto fatti, situazioni, persone o personaggi su cui vorrei scrivere, poi me ne dimentico, magari mi tornano in mente e se ho anche sognato di scriverci sopra mi convinco che è il momento, sempre che mi ricordi il sogno… Normalmente scrivo di notte, o all’alba. Da sempre.
Puoi condividere un’esperienza memorabile o un aneddoto dietro una delle tue canzoni?
Esperienza memorabile? Aver aperto il concerto al fantasma di Dave Van Ronk. Andò così: luglio 1996, Torino, alla Pellerina c’era il Festival Pellerossa, organizzato a quattro mani da Hiroshima Mon Amour e Folk Club, per cui a star internazionali come Ben Harper o Joan Baez si alternavano gruppi italiani del momento, come Africa, MauMau, Le Loup Garou o Casino Royale. Ogni sera un concertone fighissimo (e gratuito). Da par suo, Franco Lucà, del Folk Club, fece atterrare qualche cantautore, come Massimo Bubola, o qualche pezzo da novanta di area folk: Pierre Bensusan o Alan Stivell. In fase organizzativa Lucà mi telefona per chiedermi se me la sentivo di aprire a Dave Van Ronk, “l’eroe del Village… Quello che assieme a Phil Ochs ispirò il giovane Bob Dylan appena approdato a New York” – mi spiegava Franco. Quasi mi cadde la cornetta di mano (era ancora epoca di telefonia fissa) e naturalmente risposi di sì (“Grazie Franco! Che onore”). L’attesa fu per me affannosa, ma anche eccitante, se non che quella sera, alla fine, Dave Van Ronk diede forfè all’ultimo minuto. Si presentò comunque un sacco di gente, incolpevolmente all’oscuro del pacco che stava per ricevere, e io suonai quasi un’ora, invece che i venti minuti pattuiti. Dopo di me si esibì Paolo Bonfanti, decano del blues nazionale e artista più a portata di mano di Dave Van Ronk… Il ricordo più divertente di quella sera rimane la faccia terrorizzata degli organizzatori, alle nove e mezza, quando qualcuno credeva ancora che Dave Van Ronk sarebbe sceso da una macchina proveniente da Malpensa.
Aneddoti. Te ne racconto un paio. Al teatro sociale di Alba, un otto marzo di oltre vent’anni fa, fui invitato a cantare per la Festa della donna. Ai tempi avevo in scaletta una canzone che inserii poi nel mio primo album: Filomena. Un’organizzatrice, due ore prima dello spettacolo, viene a cercarmi in camerino per chiedermi se posso evitare di cantarla (chissà poi dove l’aveva sentita?.. Non era certo un pezzo che girava per radio). Il fatto è che una qualche donna un po’ in vista del jazz set albese, avrebbe sicuramente presenziato quella sera e, chiamandosi Filomena, non avrebbe apprezzato. Ci pensai un po’ su, ma alla fine decisi di accondiscendere, anche perché il tutto mi fu chiesto con tale candore che soltanto un orco si sarebbe impuntato. Il problema è che dovendo sostituire Filomena in scaletta, scelsi di cantarne una ben più sconcia, scritta anni prima. S’intitola Un po’ per Clelia, un po’ per celia, una canzone grottesca, lunghissima e un po’ pirotecnica, in cui ne facevo di ogni, compreso simulare un breve coito, ovviamente con ‘Clelia’. Alla fine del concerto il sindaco mi venne incontro con gli occhi di fuoco. E assieme a lui c’era la moglie, che mi guardò come se avessi appena sgozzato un bebè sul palco. Io mi presentai: piacere Carlo. E lei: piacere mio, Clelia.
Il secondo e più recente aneddoto c’entra con Carol Rama, la grande pittrice torinese alla quale ho dedicato una canzone intitolata Sotto il cielo di Olga (https://www.youtube.com/watch?v=zwxawBHqJ7w). A disco stampato, maggio 2020, aspetto finiscano le ristrettezze del lock down per recarmi a visitare la casa di Carol Rama, in via Napione, da qualche anno adibita a museo. Ad aspettarmi c’è l’ideatrice del progetto casa-museo: è abbastanza curiosa di conoscere chi ha scritto una canzone per la sua cara amica e io sono più curioso ancora: sto per visitare, e con una guida d’eccezione, l’ambiente in cui ho descritto, per come le immaginavo, le notti inquiete dell’artista. La canzone finisce con una citazione un po’ rimaneggiata di una hit di Celentano: Prego, grazie, scusi, tornerò. E per un caso, alla fine della visita di casa Rama, sull’armadio a specchio della camera da letto, scorgevo impresse nel vetro le stesse quattro parole prese a prestito da Celentano per concludere la canzone. L’ho interpretato come un dialogo a distanza con l’oltre tomba. Non è finita qui. Nello stesso testo, a metà canzone, a un certo punto cito il nome di Gustavo Rol, e guarda a caso proprio davanti a casa mia, appena finita la canzone, nella vetrina di un ristorante c’era un’antica macchina da scrivere con tre tasti pigiati: R-O-L e un quarto tasto: %, che ho voluto interpretare come: guarda che ti vedo, firmato Rol. Il ristorante c’è ancora, cambia gestione ogni anno; ai tempi si chiamava Brillo arzillo, ma assicuro che io ero perfettamente sobrio quando l’occhio m’è caduto sui quei quattro tasti casualmente rimasti pigiati. Posso auspicare che la canzone, in futuro, entrerà a far parte della sub cultura locale legata alla magia bianca.
Come descriveresti il tuo stile musicale in tre parole?
Intrallazzoso – Socio – Confuso
Qual è il messaggio o l’emozione che cerchi di comunicare attraverso la tua musica?
Cerco di mettercela tutta, sperando che il pubblico non si penta d’esser venuto ad ascoltarmi. Non sono un mago dello studio di registrazione, per cui me la gioco live, da sempre, ed è per quello che cerco anzitutto l’empatia del pubblico.
Hai mai incontrato delle sfide nel corso della tua carriera musicale? Come le hai affrontate?
In realtà sì, tanti anni fa, sia pur sfida con ‘s’ minuscola, durante la finale di un concorso indetto dall’arci, a Silvi Marina. Arrivai secondo, dietro un certo Simone Cristicchi che si esibì in duo con un giovane amico, anch’egli con tantissimi capelli. Ascoltandoli, ricordo perfettamente che dopo le prime due strofe della prima canzone, prim’ancora di un ritornello perfetto, pensai che avrebbero vinto quei due. Non mi sbagliai. Molte altre sfide non direi. Io arrivo dal canto politico: Fausto Amodei, i Cantovivo di Alberto Cesa, Claudio Lolli, al quale ero molto legato, per cui la mia non carriera è costellata di molti viaggi, incontri, amicizie ed episodi; non di sfide. A questo aggiungo che per temperamento credo di stare allo spirito di competizione come La Russa sta all’antifascismo.
Come vedi l’evoluzione della tua musica nel corso degli anni? Ci sono direzioni o sperimentazioni che vorresti esplorare nel futuro?
No, confesso di non essere tentato da chissà quali suggestioni sperimentative. Ascolto di tutto, se riesco, e anche la trap, che mi fa ascoltare mia figlia tredicenne, e che in alcuni casi mi piace anche. Dopo di che ho abbastanza chiaro in mente ciò che sono: un onesto e appassionato cantautore della domenica. Ma non lo dico per autoridurmi. Io credo che intrattenere un pubblico possibilmente senza annoiarlo, pubblico che o ti conosce appena o non ti conosce proprio, con canzoni proprie, nel format chitarra e voce per quasi due ore, non sia una fesseria. Ultimamente, a parte i miei sporadici recital, suono con gli Ashville, quartetto folk da me fondato dieci anni fa nel quale suonano Benz Gentile, violino, Robbo Bovolenta, mandolino e Alex Gariazzo, chitarra. Poi ho un paio di duo: uno con Federico Bagnasco, contrabbassista esperto e compositore e l’altro, ci chiamiamo Pondèl, con il polistrumentista valdostano Vincent Boniface. Nel futuro vorrei semplicemente avere il triplo dei concerti che ho attualmente, sia con gli Ashville sia con i due duo di cui sopra.
Quali sono i prossimi progetti in cantiere? Possiamo aspettarci nuova musica o tour?
Un tour vero e proprio no, però sto suonando abbastanza con Federico Bagnasco, col quale recentemente ho registrato l’ultimo disco: contiene alcune bellissime canzoni di George Brassens tradotte in italiano e in torinese da Fausto Amodei. Con Federico abbiamo registrato un buon lavoro, ricco di spunti e collaborazioni preziose. Quando riusciamo lo suoniamo dal vivo: a gennaio prossimo abbiamo una serie di date: il 12 ai Malpensanti di Alba, il 14 al CountBasis di Genova e il 17 all’osteria Rabezzana di Torino. Posti così… con pubblico raccolto e, si spera, interessato.
Quali sono le tue canzoni preferite di sempre (non necessariamente le tue)? Esiste una canzone che vorresti aver scritto tu?
Le mie canzoni preferite di sempre? Lontano lontano di Tenco, Verranno a chiederti del nostro amore di De Andrè, Incontro di Guccini, Quello che mi resta di Lolli, Maggie may di Rod Stewart e Night moves di Bob Sieger. Se esiste una canzone che vorresti aver scritto io? Ti rispondo negativamente, perché tanto se una canzone altrui mi piace, me ne approprio. Ti faccio un esempio: c’è una canzone di un mio amico genovese, Max Manfredi, che spesso e volentieri canto per me, a casa mia, ma a volte anche in concerto. Si intitola Il regno delle fate e la cosa più importante è che sia stata scritta; l’autore a volte passa in subordine, risucchiato dalla bellezza folgorante della canzone. Io la penso così. Il mio amico maestro Fausto Amodei, più di una volta, mi ha detto che il suo più grande titolo di merito è pensare che la sua notissima Morti di Reggio Emilia non tutti sanno che l’ha scritta lui. Ed è proprio così: molti pensano che sia di anonimo, come anche è scritto in alcuni canzonieri anni Settanta un po’ raffazzonati. La proprietà privata, nella musica, ha troppo spesso rovinato carriere, infranto amicizie e provocato altri guasti similari. Dopo di che non sono sicurissimo di ciò che sto scrivendo e in definitiva sì, confesso che Azzurro mi piacerebbe averla scritta io.
Come percepisci l’impatto della musica sulla società e sulla cultura? Credi che la musica abbia il potere di cambiare il mondo?
Sì che mi piacerebbe pensarlo, che la musica abbia il potere di cambiare il mondo: sento che se fossi così ingenuo da pensarlo, probabilmente vivrei meglio. La musica potrebbe, più che cambiarlo, migliorare il mondo, specie se fosse tenuta più in conto dalla politica…dal potere. Credo che quando quella discografica era un’industria fiorente, e artisti come John Reinbourn riempivano un teatro di duemila posti per lunghi concerti di chitarra acustica, e le radio libere erano seguitissime eccetera eccetera, ecco sì, forse l’impatto della musica sulla società era più importante. Ora non so bene, ma ho la sensazione che l’eventificio stia surclassando i contenuti, musica compresa. Inoltre il web ha un po’ sdoganato il dilettantismo, per cui c’è un po’ questa cosa che a volte sembra ci sia più gente sul palco che tra il pubblico… Per eventificio, declinato nel piccolo mondo che frequento, intendo dire che, per fare un esempio, ogni cantautore passato a miglior vita ha un premio o un festival in memoriam (non inizio neanche l’elenco). Non sono sicuro sia un buon segnale.
Infine, c’è un messaggio che vorresti condividere con i tuoi fan o con chiunque ascolti la tua musica?
Sì! È un messaggio arcaico e bianciardiano: quello di prendere la vita con piglio disattivistico e copulatorio. Solo così la musica smetterà il suo ruolo ancillare, da colonna sonora degli ipermercati, e potrà finalmente occupare il centro della scena. [...]